V.

Dalla traduzione della «Pucelle» a quella dell’«Iliade»

Malgrado gli attacchi dei suoi avversari e rivali, il Monti era divenuto praticamente il poeta ufficiale della Cisalpina e ricopriva la carica di segretario del Direttorio di quella repubblica. Cosí, quando scesero in Italia, nel 1799, le armate austro-russe, egli seguí il Direttorio in esilio, prima in Savoia e poi a Parigi. Periodo, specie all’inizio, assai duro (e il Monti esaltò poi molto il «puro esilio» e le sofferenze e le privazioni dei mesi passati a Chambéry) e incrudito dalla ripresa degli attacchi dei soliti Gianni e Lattanzi che gli attribuirono falsamente persino un sonetto in onore del Suvoroff (il generale russo che era venuto in Italia nel 1799). Donde in lui un crescere di «bile» che troverà sfogo nella Mascheroniana e in parte nella polemica antidemagogica del Caio Gracco (la prima iniziata, la seconda interamente scritta a Parigi), mentre egli trovava un effettivo conforto in quell’alta opera di «ri-creazione» (piú che semplice traduzione) della Pucelle d’Orléans del Voltaire. Opera che, scritta nel 1800 a Parigi (con l’intenzione di pubblicarla, come poi il Monti non fece per ragioni di opportunità), fu a lungo limata e riveduta fin negli ultimi anni del poeta, finché questi, negli scrupoli del suo ritorno alla religione cattolica, pensò di bruciarla[1].

La cura con cui il Monti (a parte il proposito tardivo di bruciarla) rivide e corresse a lungo questa sua opera è ben indice di una consapevolezza del suo valore e del suo carattere originale e personale.

Va subito detto, infatti, che (come vide giustamente il Carducci quando disse che il Monti teneva dalla sua natura «del sale samosatense»[2]) questa traduzione è in realtà una traduzione «ri-creazione», nata sulla base di una disposizione naturale del Monti (e questi non era un traduttore adatto per ogni testo, come si può vedere nel caso della versione delle Satire di Persio cosí poco riuscita nella scarsa congenialità del tradurre con quel testo moralistico e severo), disposizione già riscontrata in certe poesie giovanili che dal sorriso elegante e leggero dei modelli settecenteschi tendono a forme piú apertamente comiche, e, soprattutto, nelle lettere ricordate alla Ferretti (e in altre di vari periodi) in cui certi movimenti sinceri di spregiudicata esperienza, di humour energico e schietto (con qualche punta di una certa vivace volgarità), si eran già tradotti in un linguaggio saporoso e comicamente colorito. Mentre, d’altra parte, a quest’opera di traduzione-ricreazione il Monti era preparato eccellentemente dalla sua sicura conoscenza della tradizione comica italiana (la novellistica, la poesia eroicomica del Pulci, i poemi burleschi del Lippi e di altri scrittori del Seicento e del primo Settecento, come il Forteguerri con il suo Ricciardetto, la vera e propria commedia dal Cinquecento al teatro comico del Settecento) da cui ritornano nella Pulcella tante forme linguistiche e tanti spunti che confortano il nuovo tono piú comico-realistico, piú evidente e corposo, che il Monti realizza in maniera eccellente – e con un piglio energico, disinvolto, con un ritmo agile, elastico, continuo a cui fu di stimolo la lettura dell’Ariosto e dei poemi romanzeschi italiani – sviluppando coerentemente in una sua nuova e personale misura le offerte del testo voltairiano.

La Pucelle d’Orléans è un’opera comico-satirica con chiare finalità polemiche (la lotta degli ideali voltairiani di tolleranza, libertà, spirito critico contro la superstizione, il fanatismo, la tradizione dogmatica) e, d’altra parte, costruita (sulla ripresa del modello ariostesco risentito come testo «libertino» e burlesco[3]), in forme di ironia sottilmente intellettuale, adattamento ad una tematica scherzosa e satirica di uno stile pur sempre elegante, lucido, razionalistico-classicistico, con effetti di riso pungente, ma sempre elegantemente contenuto e del resto molto efficace nel prevalente tono di parodia. E nel ritmo narrativo vi prevale sempre una fondamentale linearità, un andamento pausato e piú discorsivo e riflessivo, accentuato dalla stessa versificazione in alessandrini rimati a coppia[4] con l’effetto di una certa monotonia.

Il Monti, coerentemente ad una sua ricostruzione dall’interno del racconto voltairiano, secondo una propria originale disposizione ad una comicità piú aperta, evidente, immaginosa e colorita, secondo un suo gusto piú mosso e vivace (e, ripeto, nella stessa ripresa di tutta una tradizione della poesia burlesca italiana piú realistica e scopertamente comica), modificò intimamente (pur nella fedeltà sostanziale alla linea e ai particolari dell’originale[5]) la realtà integrale del testo spostandone la direzione di tono, la misura del ritmo, l’orientamento del linguaggio.

Ché anzitutto, va precisato ancora, il Monti sentiva molto piú l’aspetto poetico-comico che non i precisi motivi ideologici e polemici del poemetto voltairiano. E, infatti, tanto piú esterna (anche se sempre stilisticamente accuratissima) è la traduzione di certe parti piú direttamente impegnate nella satira filosofica (come le controversie dottrinarie fra giansenisti e antigiansenisti), di cui il Monti coglie piú efficacemente solo ciò che può tradursi in scena comica e libertina, in figure, in gesti, in battute[6].

E, su questa diversa impostazione e ispirazione, tutte le caratteristiche di tono del testo vengono sostanzialmente modificate: il ritmo (e il Monti scelse come metro l’ottava dei poemi romanzeschi e burleschi) diviene rapido, vario, pieno di slancio brillante, e in esso, con ben diverso scatto e fluidità, si snodano le scene comiche tutte piú energicamente evidenti e colorite, con un taglio musicale e visivo piú netto e legamenti fra loro piú elastici e saldamente annodati, e nelle scene il maggior movimento delle figure, il maggior rilievo delle battute, corrispondono ad un linguaggio piú aperto e deciso, piú vario e piú denso (e cosí fortemente alimentato dalla ricca tradizione di lingua comica ed eroicomica italiana i cui esempi il Monti ama citare nelle note con qualche primo spunto della polemica contro il purismo cruscante che sarà sviluppata poi nella Proposta).

Fra le moltissime osservazioni che vengono sollecitate da un’opera cosí interessante e viva (uno dei due capolavori del tradurre-creare montiano) nel confronto con il testo voltairiano (confronto[7] che sempre mostra come ogni puntuale modificazione sia legata nel testo montiano alla coerente ispirazione con cui il poeta ha rivissuto le offerte dell’originale), si presentano subito, per quanto riguarda il linguaggio, l’osservazione di una costante sostituzione di nomi propri a nomi comuni, dove la scena chieda personaggi piú correnti[8], di parole piú realistiche e particolareggianti per significato e suono[9], l’inserimento abbondantissimo di espressioni e modi di dire di gusto popolaresco secondo la tradizione dei poemi burleschi o della novellistica[10].

Tutto viene nella traduzione amplificato, rafforzato, accentuato, ma con coerenza estrema e in interna relazione con una centrale direzione di tono e, veramente, con l’impressione spesso di un potenziamento effettivo, di una realizzazione piena di una trama prima piú disegnata, sfumata, elegante, ma monotona, di una voce in sordina, portata a tono di canto spiegato, di una penombra trasformata in piena luce.

Anche il paesaggio in cui si svolgono le comiche avventure di Giovanna, di re Carlo e degli altri personaggi della vicenda «irreligiosa e libertina», acquista nelle ottave del Monti (ed è qui che piú si avverte la presenza della scuola ariostesca[11]) una pienezza florida e ariosa, musicale, del tutto assente nel testo tanto piú opaco del Voltaire[12].

Né qui si possono dare molti esempi particolari della bellissima elasticità del ritmo, del dinamico sviluppo delle narrazioni con cui il Monti riannoda e rianima a suo modo il filo piú regolare ed elegante del poemetto voltairiano, con un nuovo vigore poetico-narrativo, vivo in tutta la traduzione, ma singolarmente intenso (naturalmente sulle possibilità già offerte dal racconto o – come avrebbe detto Monti nel linguaggio della tradizione critica di origine cinquecentesca – dalla «sentenza» voltairiana) nei canti IX-X-XI, che narrano le peripezie di Agnese, la bella infedele «malgrè lui», e di Rosamora e Dorotea, con un seguito di scene a cui il Monti ha dato una freschezza di ritmo e di evidenza davvero eccellente, un pieno sviluppo comico rispetto al testo voltairiano. Come, ad esempio, si può controllare rileggendo, con il testo voltairiano a fronte, la scenetta delle due giovani alle prese con un corsaro che le ha catturate e che impone a loro la scelta di chi accetterà di fargli compagnia la notte. Dorotea si dispera, ma l’inglese Rosamora accetta con l’intenzione, poi attuata, di rinnovare le gesta della Giuditta biblica. Il corsaro alla sua accettazione «d’un gros baiser la barbouille et lui dit: / «j’aimai toujours les filles d’Angleterre.» / Il la rebaise, et puis vide un grand verre, /en vide un autre, et mange, et boit, et rit, / et chante, et jure; et sa main effrontée / sans nul égard, se porte impudemment / sur Rosamore et puis sur Dorothée. / Celle-ci pleure; et l’autre fièrement, / sans s’émouvoir, sans changer de visage, / laisse tout faire au rude personnage. / Enfin de table il sort en bégayant, / le pied mal sûr, mais l’oeil étincelant, / avertissant, d’un geste de corsaire, / qu’on soit fidèle aux marchés convenus; / et, rayonnant des présents de Bacchus, / il se prépare aux combats de Cythère».

La traduzione dà a tutta la scena un piú forte sapore picaresco e comico, con un rafforzamento delle azioni grossolane e comiche del corsaro ubriaco mediante verbi piú intensi e coloriti (quello «sparnazza» che cosí gustosamente intensifica l’azione del «barbouille» voltairiano già tradotto in parte dall’«imbratta»; o quella serie di verbi tanto piú energici e comicamente realistici di quelli piú vaghi e generici di Voltaire nella descrizione del corsaro che mangia, beve, ride, canta e bestemmia) o gesti che mancano nel testo e accrescono, con una volgarità efficace, il gusto di scena comica. E tutto diventa piú movimentato (con forme piú improvvise di battute entro la scena che è procedimento costante del Monti di fronte alla linearità maggiore del Voltaire), piú concretamente particolareggiato e rilevato:

A questo dire il bravo Martinguerra

d’un gran bacio l’imbratta e la sparnazza.

– Viva, ei grida, le donne d’Inghilterra! –

poi la ribacia e vòta una gran tazza,

ne vòta un’altra, e incanna, e beve, e sferra

canzonacce e bestemmie, e poi sghignazza,

e villano, con man lubrica e rea,

Rosamora tasteggia e Dorotea.

Piange questa, ma l’altra né sembiante

cangia né loco e lasciagli far tutto,

finché, già tartagliando e barcollante,

s’alza, gli occhi di sangue e di vin brutto;

e con un gesto da corsar galante,

– State ai patti, – le dice, e caccia un rutto.

Cosí con lo splendor di Bacco in testa

alla pugna di Venere s’appresta[13].

La disposizione montiana al burlesco[14] aveva trovato in questa traduzione la sua piena affermazione risolvendo in un tono proprio (e cosí sapientemente sorretto dall’esperienza della tradizione comica e burlesca della letteratura italiana) la suggestione del racconto voltairiano.

Fu questo l’impegno maggiore del periodo francese, durante il quale il Monti scrisse anche la celebre ode-canzonetta Dopo la battaglia di Marengo e la tragedia Caio Gracco.

La canzonetta, scritta dopo la vittoria di Marengo che riportava le armi napoleoniche in Italia e permetteva il ritorno degli esuli cisalpini in patria, è l’espressione piacevolissima e fresca di uno schietto entusiasmo del Monti eccitato dal piacere del proprio ritorno in Italia (e tutte le lettere francesi son piene di un nostalgico desiderio della patria) e dalla vicenda militare vittoriosa e fulminea. Entusiasmo personale e collettivo la cui fervida traduzione ritmica è particolarmente coerente alle stesse vicende, esaltate appunto per la loro mirabile rapidità: il passaggio inaspettato delle Alpi e la battaglia di Marengo che di un colpo decideva le sorti di tutta la nuova campagna italiana. All’immagine affascinante di quella impresa «meravigliosa» per rapidità di svolgimento e di successo, si accompagna la letizia della fine del proprio esilio, e un ritmo lieto e fervido, veloce e ricco di quadri conclusi e suggestivi, ancor piú veloce di quanto non fosse nell’Ode al signore di Montgolfier (che ha però momenti piú alti, specie nel mito iniziale), adegua quelle emozioni impetuose e la sua rapidità riduce, brucia ciò che poteva esservi di eccessivo nella tendenza al meraviglioso, e rende questo piú legato a quella componente di commozione e stupore che è la gradazione piú schietta e genuina dell’«entusiasmo» montiano.

Tutta l’ode-canzonetta e inno[15] è animata da un sincero fervore, ma si possono ben indicare le parti in cui l’entusiasmo e la meraviglia hanno la loro espressione piú schietta, in cui, nella velocità festosa e commossa, si librano scene piú compatte e poetiche (anche se al solito prive della profonda serietà umana e poetica che al Monti mancava): la rappresentazione del passaggio delle Alpi da parte dell’armata napoleonica[16]

(Tremâr l’Alpi, e stupefatte

suoni umani replicar!

E l’eterne nevi intatte

d’armi e armati fiammeggiar

dove la meraviglia si fa stupore calato nelle cose descritte, nell’immagine cosí nitida e suggestiva con qualcosa di ridotto, di raccorciato e perciò tanto piú efficace e lontana dalle amplificazioni eccessive e ridondanti); l’esaltazione del Desaix vincitore effettivo della battaglia in cui morí[17] e la rappresentazione commossa e favolosa della sua tomba sulle Alpi, intatta malgrado il passare del tempo e le tempeste («L’ali il tempo riverenti / al tuo piede abbasserà: / fremeran procelle e venti, / e la tomba tua starà», dove la tensione grandiosa, spettacolare è contenuta e compressa con il risultato di una vibrazione piú intensa, e con il contrappeso solenne e nitido dell’immobilità della tomba).

Costruzione fresca ed agile, ben equilibrata dai due centri del passaggio delle Alpi e della tomba di Desaix (con un movimento gradevole fra la gioia iniziale – che torna a refrain cantabile e a rinforzo di lieto fervore nel corpo della canzonetta –, l’impressione meravigliata dell’impresa napoleonica, la commozione dell’epicedio desaixiano), anche se all’ultimo la ricerca del finale ad effetto porta a forme piú apertamente enfatiche, «ingegnose», iperboliche come il cortigianesco paragone fra Napoleone e il sole.

L’altra opera del periodo francese è il Caio Gracco, pure del 1800, una tragedia cui il Monti aveva già pensato a Roma nel 1788, ma che ora viene attuata in relazione soprattutto ad un atteggiamento politico assunto dallo scrittore che, fra riflessi della sua personale situazione (i suoi nemici appartenevano alle correnti piú demagogiche ed estremistiche), naturali aspirazioni del suo spirito moderato, amante d’un ordine stabile, e piú vaste tendenze della borghesia affermatasi con la rivoluzione e timorosa di sviluppi sociali eccessivi, si fa difensore di una libertà regolata, di una distinzione fra libertà e licenza, di una contrapposizione fra «leggi e sangue» (che era poi il motivo politico – leggi, non sangue – di un dramma di Joseph Chénier, il fratello del poeta vittima del Terrore, dramma molto riecheggiato nella tragedia montiana), di una concezione moderata e antigiacobina, e insieme di un crescente sentimento nazionale italiano, che, entro il quadro politico della protezione francese napoleonica, incomincia a reagire all’eccessiva invadenza francese nel governo della repubblica cisalpina, postula la necessità di uno sviluppo autonomo di leggi ed armi proprie e persino di una unità italiana.

Sicché quest’opera, come la Mascheroniana (in cui, in accordo con motivi e situazioni di quegli anni, interpretati con tanto maggiore impegno personale dal Foscolo dell’Ortis milanese e dell’Orazione a Bonaparte, l’accento antifrancese, ma non antinapoleonico[18], si fa piú energico insieme alla piú violenta polemica contro la demagogia e il disordine della repubblica «cisalpina» e poi «italiana»), è anzitutto interessante documento di sentimenti e motivi di quegli anni, sentimenti e motivi di cui il Monti è divulgatore efficace e brillante[19] (non senza una sua viva partecipazione), piuttosto che interprete personale profondo, contribuendo comunque, a suo modo (ed è elemento da non dimenticare nella storia dell’epoca se non nella storia della poesia), con la sua parola eloquente, con la sua forma splendente, con i suoi entusiasmi efficaci anche se poco duraturi, a diffondere idealità ed esigenze che altri riprenderanno e affermeranno con altro vigore di persuasione e di fedeltà.

Ma il Caio Gracco, cosí ricco di questi elementi politici e sentimentali dell’epoca prerisorgimentale[20], non supera certo il piano di un’efficacia oratoria e di una certa efficacia teatrale che, sulla strada iniziata dal Galeotto Manfredi, si arricchisce, appunto in direzione teatrale-popolare, di un movimento scenico di masse[21], di un intervento di veri e propri cori, con il risultato di un generale effetto di svolgimento spigliato ed energico, di azione interessante ed abilmente condotta (e in forme decise e chiare, con un linguaggio sicuro, aperto e risoluto, di apparenza quasi piú popolare, pur nel decoro letterario, come già nel Manfredi), che poté sembrare al Momigliano vera e propria organicità e ha indotto recentemente il Muscetta a riportare nella sua scarna antologia tutta questa tragedia. In realtà se indubbiamente questa tragedia, piú delle altre, ha una sua costruzione ben chiara, un’azione che raggiunge il suo esito finale con maggiore efficacia e continuità (e, ripeto, una forza spettacolare maggiore), non si può parlare di vera organicità che presuppone un nucleo centrale ben saldo e articolato dall’interno in situazioni e personaggi, mentre qui lo stesso Caio Gracco è personaggio che, sotto la baldanza di voce e di gesto, mal nasconde la sua natura composita di velleità senza centro vigoroso, fra la prevalente megalomania di eroe repubblicano senza macchia e senza paura, molto compiaciuto del suo eroismo e della sua virtú, e un vittimismo, un atteggiamento rinunciatario, generoso, ma fiacco che, sul modello dell’Agide alfieriano, non ha poi di quello certi toni elegiaci e affettuosi piú sofferti ed intimi.

Opera tecnicamente assai abile ed efficace, essa dové il suo successo contemporaneo soprattutto a motivi contingenti di costume sentimentale[22], di gusto (il neoclassicismo di temi austeri, repubblicani, alla David), di aspirazioni politiche e patriottiche espresse nella tragedia con tanta eloquenza.

Che sono in parte le ragioni del nuovo grande successo della Mascheroniana, iniziata a Parigi e terminata a Milano nel 1801[23] sotto lo stimolo di uno sfogo di «bile» contro i «birbanti» che «laceravano» la Cisalpina con la loro interessata demagogia, con la «baratteria» in accordo con disonesti funzionari e ufficiali francesi: una bile e uno sdegno che, un po’ troppo eccitati da motivi personalistici (le solite beghe con il Gianni, il Lattanzi e i loro protettori che avevano fatto inghiottire molte umiliazioni al Monti specie nel periodo 1798-1799), hanno anche elementi di sincera reazione (e cosí diffusa fra i migliori «patrioti» della Cisalpina) contro abusi vergognosi e una realtà cosí diversa da quella sperata dall’azione liberatrice della Francia e da una ripresa nazionale italiana, ma nella loro violenza (che dall’esterno anticipa o accompagna quella del Foscolo ortisiano e di altri patrioti delusi e sdegnati), nella loro audacia (sempre contrassicurata dagli elogi a Napoleone), essi hanno tanto piú una soluzione retorica non corrispondendo a vere intime disposizioni della natura montiana, rappresentando un «atteggiamento» sproporzionato all’animo montiano e veramente un atteggiamento piuttosto fastidioso e antipatico con il suo arcigno tono censorio, con l’austera e moralistica risolutezza (donde la scelta sbagliata delle Satire di Persio per una traduzione senza grande valore che forse finisce per accrescere il tono pedantesco, accademico dell’originale) di un incorruttibile «frangar non flectar» cosí poco montiano. Questo spirito pervade i cinque canti del poema In morte di Lorenzo Mascheroni, in cui il motivo del compianto del celebre scienziato e poeta didascalico è essenzialmente pretesto allo sfogo della «generosa bile»[24], come lo è la comparsa in forma di visione (ma una visione meno macchinosa e complicatamente spettacolare come nella Bassvilliana) dei grandi spiriti lombardi: Verri, Beccaria, Parini, che accolgono il Mascheroni e insieme inveiscono contro lo stato presente della Lombardia, contro il tradimento delle speranze illuministiche in una libertà non illusoria e non in mano degli stranieri e dei demagoghi, in un regime fondato sulle leggi e non sugli arbitrii e le violenze.

Tutto ciò era fatto per piacere ai contemporanei (e agli uomini del Risorgimento poi), ma in effetti è di scarso valore poetico. E se di fronte alla Bassvilliana, a cui è stata tradizionalmente sempre avvicinata, la Mascheroniana rivela un gusto piú sobrio e con particolari esiti di finezza accademica magistrale (come l’inizio che piacque al Byron e, meglio, la descrizione delle virtú presso il cadavere dello scienziato[25] che piacque al Croce), con la rinuncia ai procedimenti piú spettacolari, con un disegno generale e particolare piú attento, d’altra parte essa manca delle possibilità di intense scene narrative quali ha la Bassvilliana. E riesce difficile, a parte descrizioni e paragoni particolari raffinati e morbidi (con qualcosa che comincia a far pensare ad un’alta accademia neoclassica e che certo indica un’esperienza sulla via che conduce al periodo piú nettamente neoclassico del Monti), indicare zone compatte che non si risolvano in chiarissimi pezzi di bravura come quello della inondazione del Ferrarese (alte esercitazioni in margine ad uno sfogo prevalentemente oratorio).

Si può pensare semmai al passo della celebrazione del falso sepolcro in onore del Parini nella villa Marliani, in cui (mentre – coerentemente allo scopo centrale del poema – il Monti collabora in altre parti alla creazione del mito risorgimentale del Parini, fremente di spiriti nazionali oltreché di sdegno morale per la libertà tradita e contaminata con la violenza; e si noti che il poema precede cronologicamente le pagine foscoliane dell’incontro Iacopo-Parini nell’Ortis milanese) si esprime, in un’aria di tenue idillio elegiaco, l’ammirazione per il Parini poeta, rievocato anche in certi echi della sua poesia in una disposizione simile a quella della rievocazione dei poeti nell’Epistola alla Malaspina. Certo una pagina minore e in qualche punto leziosa, ma nel complesso piú affabile e gradevole di tante pagine di bile e di sdegno ad ogni costo[26].

Sdegno e bile che vennero poi a cessare del tutto quando la fase repubblicana della Cisalpina e della Italiana fu chiusa per volontà di Napoleone, divenuto nel 1804 imperatore di Francia e nel 1805 re del regno italico.

Il Monti si adeguò presto (dopo una superficiale irrequietezza documentata dalle lettere) al nuovo ordine che del resto aveva, per lui, il vantaggio di escludere la «pazza demagogia» e il disordine di una libertà piú apparente che reale.

Nominato «storiografo del regno italico», fu di fatto il poeta cesareo di Napoleone, ché le uniche storie che egli poteva scrivere erano poemi e azioni drammatiche ad illustrazione poetica degli avvenimenti contemporanei, delle campagne di Napoleone.

Ne risultò una produzione molto scadente e priva di vero significato sia come risultati sia come documenti di un’evoluzione del gusto montiano, che si riscontra invece in alcune poesie di occasione cortigiana, ma libere dalle forme costruite di azione drammatica o di poema cui lo impegnava il suo ufficio di «storiografo», e tutte posteriori al 1806, l’anno con cui si conclude la fase dei poemi encomiastici e grandiosi con la maggiore prova, fallita, del Bardo della selva nera.

Che è comunque l’unico di questi componimenti che meriti una certa attenzione: non la meritano assolutamente i poemetti in forma di visione, il Beneficio del 1805 – in cui Dante appare a tuonare contro gl’italiani degeneri e a raccomandare loro fiducia in Napoleone –, La spada di Federico II del 1806 – in cui l’ombra del re prussiano appare a consegnare la sua spada a Napoleone vincitore in Germania –, né, piú tardi nel 1809, la confusissima Palingenesi politica, in onore di Giuseppe Bonaparte re di Spagna –, né le misere azioni drammatiche (scritte per rappresentazioni ufficiali) come La supplica di Melpomene e di Talia a Napoleone (il teatro italiano spera salvezza in Napoleone nuovo re d’Italia) o come L’asilo della verità del 1806, scritto per una festa massonica in onore di Eugenio viceré d’Italia e capo della massoneria del regno italico, curiosissimo elogio degli «oscuri illuminati» e lambiccata esaltazione dei simboli massonici.

Con il Bardo della selva nera il Monti fa la massima prova di storiografo poetico (anzi egli avrebbe dovuto seguire l’armata napoleonica nella campagna di Germania per meglio poi dipingere poeticamente i successi) e l’ultimo tentativo della direzione di una poesia che celebri e «abbellisca» i fatti contemporanei .

Il Monti escogitò una «macchina» di cui molto si compiaceva, per sorreggere i fastosi quadri celebrativi di tutte le imprese napoleoniche: disegno in realtà piuttosto goffo e complicato, mescolante elementi contemporanei e miti questa volta ripresi dai «canti barditi» del Klopstock e dall’Ossian in relazione al soggetto «germanico» (la campagna del 1805 di Napoleone in Germania con la battaglia di Ulm sono il centro del poema), nonché alla predilezione di Napoleone per l’Ossian, ed anche in relazione alle conversazioni e alla corrispondenza del 1805-1806 del Monti con la Staël fautrice del romanticismo e della poesia nordica. Un bardo, ultimo rappresentante dei leggendari cantori epici gaelici e germanici, Ullino, da un’altura nella Foresta Nera segue lo svolgimento della battaglia di Ulm e, sceso poi nel campo di battaglia, soccorre un guerriero francese, Terigi (figlio di madre italiana: un modo di celebrare l’amicizia italo-francese), di cui la sua figlia Malvina si innamora. Donde la possibilità di un idillio patetico e, nel lunghissimo racconto che Terigi fa della propria vita di soldato napoleonico, la possibilità di rievocare in piú canti (il poema consta di sette canti piú un frammento dell’ottavo incompiuto) le varie campagne napoleoniche, da quella dell’Italia del 1796 in poi, con la versificazione sonante dei celebri bollettini del condottiero, con la nobilitazione epica di altrettanti celebri aneddoti della vita militare del Bonaparte (come quello della sentinella – naturalmente lo stesso Terigi – che, addormentatasi per la stanchezza, vede, svegliandosi, al proprio posto lo stesso Napoleone).

Alla «macchina», che il Foscolo giudicò subito disorganica, fredda, impoetica, corrisponde una interminabile serie di quadri descrittivi, di grandi affreschi napoleonici vistosi e sonanti, puramente illustrativi. E, in verità, ciò che il Foscolo ammetteva, la presenza cioè nel poema fallito di ammirabili squarci di perfetta poesia (a parte la qualifica di perfetta poesia che non si addice mai alla poesia montiana), va comunque ridotta, anche nella direzione di un’efficacia poetico-retorica di grandi scene movimentate e «mirabili», ad un passo che descrive la sera dopo la battaglia di Albeck, al termine del primo canto. Un passo di cui il Foscolo sentí l’efficacia e che lo stimolò poco dopo scrivendo i Sepolcri (la battaglia di Maratona) e in cui si ritrova, in un singolare isolamento rispetto a tante battaglie descritte in questo lungo poema, la tensione all’energico, alla poesia grande, presente con tanto maggiore impegno nel Prometeo:

Pallido intanto su l’abnobie rupi

il sol cadendo, raccogliea d’intorno

dalle cose i colori, e alla pietosa

notte del mondo concedea la cura.

Ed ella, del regal suo velo eterno

spiegando il lembo, raccendea negli astri

la morta luce, e la spegnea sul volto

degli stanchi mortali. Era il tuon queto

de’ fulmini guerrieri, e ne vagava

sol per la valle il fumo atro, confuso

colle nebbie de’ boschi e de’ torrenti:

eran quete le selve, eran dell’aure

queti i sospiri; ma lugúbri e cupi

s’udían gemiti e grida in lontananza

di languenti trafitti, e un calpestío

di cavalli e di fanti, e sotto il grave

peso de’ bronzi un cigolio di rote,

che mestizia e terror mettea nel core.

Il Bardo è veramente l’ultimo sforzo macchinoso verso una poesia grandiosa, celebratrice di vicende contemporanee. Il Monti non tenterà piú questa strada e mentre la tensione all’epico, al grandioso troverà risoluzione nella traduzione omerica (dove, nell’appoggio e nel freno del testo, raggiungerà una sua misura e coerenza), in varie poesie posteriori al Bardo si precisa una maniera stilistica piú decisamente neoclassica e di un neoclassicismo piú fine, elegante, con un disegno piú nitido, come dimostra chiaramente quell’ode del 1807, In occasione del parto della viceregina d’Italia e del decreto del 14 marzo 1807 sui Licei-convitti, che parve al Foscolo[27] «cosa perfetta in ogni suo aspetto», e che il Momigliano indicò come avvio del nuovo orientamento del gusto montiano, come punto di passaggio da forme piú scenografiche a forme piú fini e composte, decisamente neoclassiche.

E, in effetti, in quest’ode (come anche in quella a Venere Urania del 1809, nella Jerogamia di Creta del 1810, nelle Api panacridi in Alvisopoli del 1811) c’è un’assunzione decisa e costante di quei principii e moduli neoclassici cui il Monti si era avvicinato piú volte con diverso impegno e con tipici compromessi dovuti al gusto in cui si era formato tra Frugoni, Minzoni e Varano, e in cui vivevano elementi nativi, tendenze spontanee all’enfasi e alla grandiosità spettacolare. Ora l’adesione agl’ideali neoclassici di nobile semplicità e tranquilla grandezza e ai canoni stilistici che ne derivano è piú convinta e tenace (e risoluto ormai l’abbandono della scenografia macchinosa delle visioni e di ogni mito non classico) e un vagheggiamento di valori etico-estetici tipici dell’epoca neoclassica (verecondia, pudore, casta bellezza, saggia e serena maestà, calma potenza), bene sviluppabile sulla tematica propizia di questi componimenti per nascite e nozze regali o per istituzioni di cultura o per occasioni connesse con il culto dell’arte e della bellezza, si esprime coerentemente in costruzioni, in cui il disegno prevale in articolazioni piú equilibrate ed armoniche, in immagini pacate, in una musicalità piú lene e soave pur senza perdere del tutto la lucentezza e la floridezza tipiche del Monti, lo slancio di un entusiasmo, fatto ora piú attento e pauroso di espansioni immaginose eccessive e iperboliche. Si spezzi a qualsiasi punto la prima ode («Da questa cuna, ov’auspice / fecondità s’asside / e alla pensosa e trepida / donna regal sorride, / primo de’ fior porgendole / la bruna che spuntò nunzia d’april...») o la seconda a Venere Urania («Vieni dunque, o gran diva! / E qual d’Ilisso in riva / di Fidia un giorno ad animar scendesti / lo scalpello e il pensier, scendi cortese / su la regale Olona; e qui di Egira / e di Elide gli altari oblïerai») e si avvertirà chiaramente la presenza di un gusto piú finemente neoclassico.

Questa piú decisa, e non piú abbandonata, adesione al neoclassicismo aveva avviato (e insieme ne aveva poi ricevuto un appoggio fondamentale) il Monti a quella traduzione dell’Iliade cui egli aveva pensato già nel 1788, quando parlava dei poemi omerici come del Vangelo d’Apollo in coincidenza con un momento (Epistola alla Malaspina, Musogonia) di maggiore orientamento neoclassico e di amore per la bella poesia della tradizione greco-latino-italiana, per i «bei carmi» e i «bei miti». Quel primo tentativo fu però presto abbandonato per il prevalere di altri interessi e tendenze e del resto lo stesso metro scelto, l’ottava, era particolarmente disadatto per una versione dell’Iliade che non volesse perdere del tutto la solennità e la semplicità dell’originale e che non volesse distaccarsi dal modo con cui il neoclassicismo risentiva l’ordine e il suono della poesia antica (anche se – come avvenne nella Musogonia – quella scelta indicava appunto l’incertezza del neoclassicismo montiano in quel periodo e l’istinto di compromesso, di spostamento della poesia omerica su di un piano piú mosso, ricco e colorito almeno musicalmente, quale lo poteva offrire l’ottava).

L’ottava, adattissima per la versione della Pucelle (ed anzi prima felice scelta del Monti per la nuova animazione narrativo-comica portata nel testo voltairiano), non lo era affatto per quella dell’Iliade e difatti il Monti si svolse decisamente all’endecasillabo sciolto[28], quando nel 1807 scrisse e pubblicò (insieme all’“esperimento” di traduzione del primo dell’Iliade del Foscolo[29]) un Saggio di traduzione del I dell’«Iliade», accompagnato da un discorso Sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’«Iliade», assai interessante perché chiarisce il metodo del tradurre poetico del Monti e conferma la maturità del suo gusto, la grande esperienza letteraria e linguistica ormai in suo possesso, pronta ad essere impiegata in questa grande prova (la vera grande «occasione» del poeta delle occasioni contemporanee).

Quanto al tradurre, il Monti si preoccupava sí della fedeltà al testo, ma lo sdoppiava secondo vecchie distinzioni retoriche in «sentenza» e «locuzione» (piú tardi si dirà contenuto e forma) e tenendo alla fedeltà alla «sentenza» portava la sua attenzione di ricreatore alla «locuzione», alla nuova forma in cui la «sentenza» doveva nuovamente realizzarsi, entro le particolari esigenze della lingua poetica del traduttore e della sua traduzione. E quanto alla nuova locuzione (indifferente in sostanza alle condizioni di «locuzione» del testo e quindi disposta a trasformarne liberamente disposizione di parole, ritmo, preciso colorito linguistico e fonico[30]) il Monti cercava una propria armonia, una propria efficacia e mirava, mantenendo i nuclei poetici e narrativi del testo, a svilupparli in una nuova misura dell’immagine, in un nuovo ritmo originale, in una nuova melodia («immaginazione ed orecchio») di cui soprattutto si preoccupava per «schiudere (come egli dice in questo discorso) le porte del santuario dell’anima senza farne stridere i cardini»[31].

Sicché si può subito notare come nella stessa sintassi la versione montiana si diversifichi da quella omerica sostituendo in generale la subordinazione, l’ipotassi, alla coordinazione, alla paratassi, per la ricerca di un effetto di costruzione piú mossa, piú complessa, piú continua e dinamica, secondo la propria tendenza ad un discorso poetico piú eloquente, chiaroscurale, ad onda musicale e immaginosa piú slanciata e movimentata.

Tendenza che si può verificare anche nel confronto della incompiuta versione foscoliana, sostanzialmente piú fedele e impegnata a riprodurre (pur con sviluppi e «innesti» di immagini, specie di paesaggio, dove il testo omerico offre solo nomi di località, per svolgere la suggestione di luoghi che ai greci era suscitata dalla semplice evocazione del nome geografico e che sarebbe stata muta per i moderni[32]) piú da vicino la «divina semplicità» di Omero, il sapore greco dell’originale. La traduzione foscoliana scava sempre piú in profondo, ma è piú discontinua, di intensità piú saltuaria fra parti in cui c’è già l’avvio a modi delle Grazie e l’alto esercizio di versione media la serenità omerica nel verso foscoliano e ha parti meno vive, mentre la versione montiana ha una continuità maggiore, un ritmo piú costante, una forte coerenza nello sviluppo nuovo della «sentenza» omerica, anche se portata ad un tono piú florido ed eloquente, ad una pienezza meno «divinamente semplice», piú neoclassica che classica e cosí chiaramente montiana.

Cosí, pur raggiungendo una misura tanto maggiore di quella di altre sue opere «originali» nell’appoggio e nel freno della potente ed essenziale fantasia omerica, il Monti colmava spesso pause e fratture del testo omerico con una lingua poetica piú costantemente immaginosa e sonora.

Né d’altra parte ne risulta una monotona enfasi, ché il Monti segue bene le direzioni fondamentali dei vari temi e motivi omerici e pur investendo tutto il poema con un tono generale piú colorito, con un piglio piú aperto di gesti e di suoni, con una amplificazione e accentuazione piú sonante e florida, sa distinguere e realizzare intonazioni diverse in cui (ed è ciò che piú bisogna chiarire) aderisce alle essenziali indicazioni omeriche sulla base di proprie disposizioni poetiche precisatesi già nella sua attività precedente.

Nell’entusiasmo per il grande mondo poetico di Omero, nel fervore di ricrearlo, di inserirlo nella tradizione poetica italiana e di farlo entro le direzioni del proprio gusto e delle proprie tendenze, vivono poi effettive disposizioni montiane a temi e toni diversi, disposizioni che nella sua opera originale non erano riuscite a realizzarsi in vera e grande poesia, non si erano articolate in opere complesse ed unitarie, ma che ora trovavano un impiego e uno sviluppo sicuro nella particolare situazione di una nuova vita, appoggio di nuclei poetici autentici offerti dal testo omerico.

Cosí la stessa tensione montiana all’epico, al sublime eroico, che non si era attuata in una vera, compiuta poesia personale (e si pensi al Prometeo o al brano citato del Bardo della selva nera), trova ora sviluppo e risultato efficacissimo nella ricreazione del «sublime» e dell’eroico omerico.

Osserviamo, ad esempio, la rappresentazione di Apollo che scende irato dall’Olimpo a far strage del campo greco (figura che già gli antichi consideravano uno degli esempi piú alti del «sublime» e che tanto affascinava i neoclassici con la sua energia contenuta, con il suo movimento possente e pure statuario, fermato in gesti essenziali). Il testo greco (reso qui alla lettera) offre una rappresentazione piú semplice, in una successione meno preoccupata di un dinamismo e di un legame evidente, con un rilievo piú sobrio, con elementi d’immagine meno svolti e interamente completati. «Cosí disse pregando, lo udí Febo Apollo. Venne dalle cime dell’Olimpo irato in cuore, avendo sulle spalle l’arco e la faretra chiusa; risuonavano le frecce sulle spalle di lui irato, mentre camminava; egli veniva simile alla notte». Il Monti traduce sviluppando nella ricreazione di quella figura la sua tensione al grandioso e al sublime e ottenendo una rappresentazione piú movimentata, piú colorita, piú sonante e pure, nella sua nuova misura, indubbiamente intensa e suggestiva:

Sí disse orando. L’udí Febo, e scese

dalle cime d’Olimpo in gran disdegno

coll’arco sulle spalle, e la faretra

tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo

su gli omeri all’irato un tintinnío,

al mutar de’ gran passi; ed ei simíle

a fosca notte giú venía.

Constatato il risultato, notiamo le caratteristiche della diversa misura montiana cosí coerente alla propria tendenza e insieme lontana dai pericoli di eccesso, di caduta prosastica che abbiamo tante volte notato nelle poesie montiane di questa intonazione.

Si noti anzitutto il legame piú saldo e organico del periodo, rinforzato dai numerosi enjambements, il fluire piú abbondante delle immagini e dei suoni, l’accentuazione dei gesti e del movimento (sottolineato, con efficace soluzione di tutto il quadro, nel «giú venia» in coerenza con la precisione di direzione del verbo «scese» invece del semplice «venne»), il completamento e lo sviluppo delle immagini grandiose (specie lo sviluppo immaginoso e sonoro del «risuonavano le frecce» in «mettean le frecce orrendo... un tintinnio», in cui l’«orrendo tintinnio» foriero di morte si accompagna all’aperta indicazione del movimento grandioso e possente del dio «al mutar dei gran passi» e fonde con estrema efficacia immagine e suoni in un’unica direzione di orrore sublime) e, nel finale, la realizzazione piú piena dell’essenziale paragone di Omero «veniva simile a notte» nel giro sonoro immaginoso (ricco di accenti che movimentano e riecheggiano il tintinnio delle frecce, colorito cupamente secondo la tendenza montiana a maggior colore) dell’ultima parte: «ed ei simile / a fosca notte giú venia». Dove si può misurare insieme la modificazione rispetto alla «divina semplicità» di Omero, ma anche la misura, coerenza, efficacia (con un’esperienza di lingua poetica e di procedimenti artistici raffinatissimi) della ricreazione montiana.

Oppure – sulla linea di quel sublime celeste, di quel commosso stupore di fronte a spettacoli di grandiosità cosmica (che è certo una delle disposizioni piú genuine del Monti se non, come vuole il Flora e piú moderatamente il Russo, la centrale e profonda ispirazione montiana capace di una vera e grande poesia personale) – osserviamo il risultato di eccellente coerenza visiva e musicale che ci offre nel canto VIII la traduzione del finale paragone fra l’accampamento greco con i suoi innumerevoli fuochi e il cielo sereno pieno di stelle splendenti intorno alla luna (un paragone che ebbe un’altissima ripresa poetica nel Leopardi, tanto diversamente profonda).

Il testo greco dice (VIII, vv. 555-559): «come quando nel cielo le stelle, intorno alla luna splendente, appaiono lucenti, allora l’aria è senza vento, appaiono tutte le torri e le cime alte dei monti e le selve, e dal cielo si spande l’azzurro immenso; si vedono tutte le stelle, e il pastore gode nel cuore». E il Monti ha tradotto[33] (VIII, vv. 762-770):

Siccome quando in ciel tersa è la Luna,

e tremole e vezzose a lei dintorno

sfavillano le stelle, allor che l’aria

è senza vento, ed allo sguardo tutte

si scuoprono le torri e le foreste

e le cime de’ monti; immenso e puro

l’etra si spande, gli astri tutti il volto

rivelano ridenti, e in cor ne gode

l’attonito pastor.

Al solito le profonde ed essenziali immagini omeriche sono svolte in tutti i loro elementi di suggestione e questa viene portata in un’aura piú estatica, di stupore (e la vera chiave montiana del passo è quell’«attonito» che espande e caratterizza in un senso di meraviglia rapita il godimento piú sobrio e pacato del pastore omerico[34]), mediante un’amplificazione ed accentuazione di mirabile coerenza di tutte le parti del paragone. Si noti l’insistenza montiana sulla pienezza e totalità dello spettacolo: tutte le torri, tutto il volto, si noti la duplicazione degli aggettivi: immenso e puro l’etra che in Omero era solo immenso; e le stelle lucenti che divengono tremole e vezzose (e gli astri divengono ridenti con una nota di sorriso, di letizia, che mancava del tutto in Omero), con una vibrazione piú aggraziata e delicata che certo è lontana dalla «divina semplicità» omerica e richiama nel complesso impasto linguistico montiano tracce piú settecentesche, ma che non stona nella nuova intonazione creata dal Monti, e coerentemente richiama poi il ridenti finale con un equilibrio interno veramente perfetto.

Anche nella direzione del comico gli episodi di intonazione fra comica e grottesca (certi incontri di Giunone con Vulcano, i ritratti del vanitoso Pandaro, l’episodio di Tersite) vengono nella traduzione ad accentuare il loro rilievo apertamente comico secondo una disposizione originale di cui il Monti già aveva dato alta prova nella versione della Pucelle: e Tersite uomo «pessimo» diviene «brutto ceffo», il suo «mordere» i grandi si cambia nella sua «frega di dar morso», il «minacciare» in «vomitare ingiurie» (come il corsaro voltairiano che «chante et jure», nel Monti «sferra canzonacce e bestemmie»), il sangue causato dalle percosse di Ulisse si precisa nella visione comica della «schiena rubiconda» di Tersite. E tutto ciò avviene secondo una linea coerente di maggior colore comico, di piú accentuata evidenza efficace, confortata, nel lavoro complesso della traduzione poetica, da echi e riprese della lingua poetica italiana nelle sue varie tradizioni[35]: vera «italianizzazione» in cui il Monti, sullo stimolo delle sue disposizioni originali, risviluppa i motivi omerici secondo un suo tono e colorandoli insieme di echi infiniti di poeti italiani (e latini: la vera tradizione letteraria di cui il Monti aveva vastissimo possesso è appunto quella latino-italiana), a volte utilizzati proprio nella stessa precedente ripresa di passi e versi omerici da parte di precisi poeti italiani e latini.

Ad esempio, traducendo l’episodio di Ulisse e Diomede, che attraversarono di notte il campo nemico, il Monti utilizza, con estrema sapienza per il suo preciso fine di un tono piú complesso, vario e colorito (non quindi in un coacervo eclettico di reminiscenze, ma secondo una scelta ben sua), l’episodio virgiliano di Eurialo e Niso e quello ariostesco di Cloridano e Medoro arricchendo la narrazione omerica (che di quegli episodi era stata spunto letterario) dei toni piú teneri e delicati di Virgilio e di quelli piú nobilmente vivaci ed ariosi dell’Ariosto.

Ed ugualmente nella linea dell’alto patetico omerico, sviluppando le proprie venature malinconiche e sentimentali (e insieme utilizzando certi moduli sentimentali preromantici in cui quella sua disposizione si era esercitata nelle poesie dell’amore wertheriano e nelle prime due tragedie), il Monti accentua, colorisce, espande verso una maggiore evidenza sentimentale, verso immagini e cadenze piú apertamente patetiche ed elegiache, il testo originale, dal cui tono piú sobrio tanto piú in questo caso potevano contribuire ad allontanarlo, avviandolo a un sentimentalismo piú deciso, quelle traduzioni di ultimo Settecento come quelle del Cesarotti (che persino nel titolo accentuava il suo carattere preromantico: La morte di Ettore) attraverso le quali egli – poco esperto, se non del tutto ignorante di greco – avvicinava, insieme a traduzioni di primo Settecento e a traduzioni latine, il testo originale (il «traduttor dei traduttor d’Omero» dell’epigramma foscoliano, e tuttavia traduttore poetico e capace di mediare il mondo omerico al proprio tempo, di far rivivere la poesia omerica in una ricreazione suggestiva e coerente).

Se si legge il grande episodio nel libro sesto dell’incontro di Ettore e Andromaca alle porte Scee si nota facilmente l’amplificazione piú apertamente patetica che coerentemente sviluppa la poesia omerica in toni piú trepidi, teneri, sentimentali e con una maggiore espansione e pienezza nelle figure, nei gesti, nelle parlate (con qualcosa di melodrammatico, ma di un melodrammatico decoroso e neoclassico, piú pieno di quello settecentesco). Al culmine dell’episodio[36] l’eroe diventa l’«intenerito» eroe e il gesto di Ettore che, baciato il figlio «con immenso affetto» (espressione mancante nel testo greco) «e dolcemente tra le mani alquanto / palleggiato l’infante, alzollo al cielo, / e supplice sclamò: Giove pietoso...», è tutto piú svolto ed ampliato, reso drammatico e patetico, fra recitazione e movimento su di una ideale scena: il «dolcemente» mancava, l’atto del «palleggiare» era meno indugiante – «palleggiò tra le mani» –, mancava l’«alzollo al cielo» che dà al gesto il suo completamento visivo e teatrale e prepara nella sua espansione l’espansione della voce di invocazione agli Dei, che sale in quell’impeto, in un legame evidente di gesto e parola che mancava in Omero. E nei grandi versi in cui Omero rappresenta Andromaca che raccoglie Astianatte al seno odoroso «sorridendo fra le lacrime», questa espressione cosí sintetica viene svolta e disposta in una diversa relazione con il gesto di cui il Monti accentua, in posizione di clausola, l’evidenza sensibile, con un effetto piú apertamente musicale e visivo, con un rilievo complessivo di colore sentimentale e di colore di visione e suono, piú moderno e tale che bene spiega il fascino che poté esercitare ad esempio sul Pascoli: «ed ella / con un misto di pianti almo sorriso / lo si raccolse all’odoroso seno».

E quante volte il Monti in questa direzione svolge in toni preromantici (e nella sua versione di un preromanticismo ad onda immaginosa e sonora) certe sobrie note patetiche di Omero (cosí – nel canto XXIII, v. 125 della versione –, nell’episodio di Achille che parla all’ombra di Patroclo, l’omerico «gusteremo il triste lamento» diviene «gustiam la trista voluttà del pianto»), mentre nelle stesse immagini della morte di guerrieri l’immagine luttuosa si fa piú evidente, particolareggiata, quasi realistica[37], secondo tutta una tendenza generale della traduzione che punta, nelle varie direzioni tematiche, su di una generale forma di evidenziamento, di arricchimento, di sviluppo del testo in immagini piú aperte, compiute, svolte in tutti gli elementi di suggestione sentimentale, visiva e musicale.

Operazione, dunque, non frammentaria, ma corrispondente ad un’intonazione generale unitaria e varia, ad un afflato di entusiasmo poetico precisato dalla realtà poetica del grande testo omerico, realizzato in una traduzione ricreazione che è il vero capolavoro del Monti, il risultato piú alto della sua tensione alla grande poesia, del suo «entusiasmo», delle sue disposizioni autentiche (anche se prive di un potente centro unitario), della sua complessa esperienza della tradizione poetica, del suo lunghissimo esercizio artistico.

Ed operazione condotta in uno stato di entusiasmo costante e resistente, in un lavoro complesso e ispirato, in un periodo di pienezza e di maturità artistica e vitale. Pienezza che par tradursi anche nelle parole trionfali e cordiali con cui egli invitava un’amica ad un pranzo di intimi a celebrare il compimento della traduzione: «Omero è finito... Sono lietissimo, il cuore mi brilla, e ho bisogno di spandere la mia gioia nei cuori che mi son cari»[38].


1 Andrea Maffei salvò il manoscritto che ora si trova nella biblioteca comunale di Bergamo. Da una copia, fortemente rimaneggiata dal Maffei, di questo, il Toci nel 1878 pubblicò la Pulcella (la ripubblicò con correzioni nel 1880), suscitando una polemica “puritana”. Ma già nel 1869 il Carducci (che aveva pubblicato solo alcuni frammenti già noti nel volume Versioni poetiche) aveva giustamente detto: «l’arte è morale di per sé e nobilita tutto che ella irraggi». Un’edizione piú recente è quella di G. Natali nei Classici del ridere del Formiggini, Roma 1925.

2 Gran parte della critica ha finito per trascurare questa traduzione (l’Angelini, ad esempio, non ne parla e non ne riporta nulla nella sua vasta antologia montiana). Bene ha fatto invece il Muscetta a darle notevole spazio nella sua antologia cosí eccessivamente severa per tante altre opere montiane.

3 È l’Orlando del primo giudizio voltairiano. Ché in seguito (v. in proposito la mia Storia della critica ariostesca, Lucca 1951) il Voltaire nel Dictionnaire philosophique dette un giudizio ben piú complesso del poema ariostesco, non solo «plaisant», ma anche «sublime».

4 A volte Voltaire ricorre anche ad altre combinazioni di rima, ma per lo piú dominano le serie di versi baciati (metro per il quale il Baretti parlava di una processione di monaci procedenti a due a due). Per Voltaire si cita da Oeuvres complètes, La Pucelle. Petits poëmes, premiers contes en vers, Paris 1877. Per Monti si cita dall’edizione della Pulcella, a c. di G. Natali, Roma 1925.

5 Solo in rarissimi casi il Monti inserisce qualche breve battuta personale contro i suoi famosi nemici (Gianni e Lattanzi, che fa apparire in una sfilata di galeotti) e non opera mai veri cambiamenti di struttura, né fa tagli o aggiunte di racconto.

6 Si noti poi che il Monti non tradusse le note che Voltaire aveva aggiunte al poemettto per svilupparvi anche piú i motivi della polemica religiosa e ideologica. E vi sostituí alcune sue note di carattere linguistico in relazione al proprio testo.

7 Il confronto va inteso naturalmente non come paragone di valore dei due testi, ma come distinzione del loro tono e quindi come prova delle qualità nuove, coerenti del testo montiano, della sua qualità di traduzione-creazione.

8 Cosí le «beautés», le «bellezze», con cui Voltaire indica senz’altro spesso le giovani protagoniste del suo poemetto, prendono sempre nome e determinazioni precise (e, se parla di Dorotea a Milano e delle belle fanciulle che essa vi incontra, queste da «beautés» divengono le «agili tosette milanesi»), e, nell’iniziale presentazione di Giovanna coraggiosa come Orlando, la «beauté douce comme un mouton», che Voltaire preferirebbe per comodi amori invece della leonina Giovanna, diviene una Rosetta e il nome da novella e commedia evoca come un ambiente piú preciso e concreto, in questa parte della estrosa protasi del poema. E val la pena di riportare come esempio dello sviluppo montiano in direzione di comicità, di vivacità, di movimento i due brevi passi: «J’aimerais mieux, le soir, pour mon usage, / une beauté douce comme un mouton; / mais Jeanne d’Arc eut un coeur de lion: / vous le verrez, si lisez, cet ouvrage». «Per mio spasso vorrei la sera in letto / una Rosetta dolce come agnella; / Giovanna d’Arco no; le dié natura / cuor di lione e mi faría paura»; canto I, strofa II).

9 Cosí, ad esempio, nella scenetta di una merenda il cane che nel testo di Voltaire «est occupé / a se saisir des restes du soupé», nel Monti è rappresentato con evidenza ben diversa: «intento è tutto / a sgranocchiarsi un osso di prosciutto» (e in una nota il Monti stesso insiste sul valore fonico e di evidenza gustosa di quel verbo).

10 Quando un messaggero annuncia al re Carlo che la sua amata Agnese lo ha tradito, chiuderà l’annuncio con un «È fatto il becco all’oca», e se Voltaire parla di guerrieri che vincono, il Monti traduce che «danno la paga» agli avversari.

11 Sembra quasi a volte una specie di ritorno a toni ariosteschi piú sicuri di un testo (quello del Voltaire) in cui l’esempio ariostesco fosse stato come diluito in forme piú discorsive di gusto illuministico-classicistico.

12 Si veda, ad esempio, nel canto XIV, la descrizione del paesaggio della Loira in Voltaire e Monti: «Le roi des Francs avec sa garde bleue, / Agnès en tête, un confesseur en queue, / a remonté, l’espace d’une lieue, / les bords fleuris oú la Loire s’étend / d’un cours tranquille et d’un flot inconstant». «Dalla sua torma Carlo accompagnato, / Agnese in testa, Bonifazio in coda, / già d’un tratto di lega ha rimontato / la fiorita del fiume amena proda. / Qui la Loïra in letto delicato / con rumor piú tranquillo avvien che s’oda / volgere l’onda, e l’onda in sé smarrita / bacia la riva che a restar l’invita» (str. XI).

13 Canto IX, str. XII e XIII.

14 Dopo questa versione il gusto caricaturale e comico del Monti si fa sempre piú sicuro e quante volte nelle sue lettere (e poi nella polemica anticruscante della Proposta) veniamo colpiti da improvvise figure caricaturali (come quella del Gianni che nel periodo di maggiore infatuazione francofila e demagogica attraversa le vie di Milano con una coccarda tricolore «piú grande dello scudo di Achille») o da bozzetti comici vivacissimi (come quello degli amori cinedici dell’improvvisatore Sgricci).

15 Il «cantabile» cosí evidente, e persino troppo accentuato nell’inizio famoso, si collega bene in generale ad una volontà e ad un andamento di inno. In tal senso, come ho altre volte detto, il Monti apre la strada all’innografia romantica patriottica e civile. E queste offerte spiegano in parte l’amore di un Manzoni o di un Berchet per il Monti.

16 Questo passaggio delle Alpi ritorna piú volte nelle opere montiane di questo periodo: come nella Mascheroniana, e nell’azione drammatica del 1804, Teseo.

17 L’elogio commosso del Desaix ritorna nel Teseo, nella Mascheroniana e in una breve azione drammatica del 1801 Omaggio funebre di due madri italiane alla tomba di Desaix, che, pur nella sua natura di alto artigianato, ha un inizio squisito e fragilmente gentile e delicato: «Questo fiore, / che il dolore / sulla tomba tua gittò, / nacque in seno / a quel terreno / che il suo sangue consacrò. / Oh di Francia dolente / cara estinta speranza, / immortale Desaix, questo gradisci / a tua virtú dovuto / della nostra pietà mesto tributo». Fa pensare a una maniera che meglio si affermerà nell’ultimo periodo (in Tragedie, drammi e cantate cit., p. 443).

18 Napoleone è sempre (come avviene nelle dittature) al disopra delle accuse montiane, che si rivolgono piuttosto agli esecutori dei suoi ordini e ai governanti locali.

19 Donde, nella storia della fortuna dell’opera del Monti, anche quel prestarsi di questa a diverse simpatie e preferenze ideologiche e politiche: i canti repubblicani e progressisti che commossero i laici (e massoni) Carducci e Zumbini, la Bassvilliana cattolica e antiilluministica che divenne testo prediletto delle scuole salesiane nel secondo Ottocento.

20 Le parlate di Gracco sulla fortuna di essere nato in Italia di cui si auspica l’unità e la potenza, sulla grandezza di Roma e del suo immortale «primato», fondato sulla potenza e piú sul diritto, e d’altra parte la polemica – tanto piú schietta nel Foscolo dell’Ortis – contro i romani sopraffattori violenti delle altrui libertà ecc. (v. atto III, sc. III, pp. 391-392, dell’edizione Tragedie del Carducci; atto II, sc. V, pp. 367-368). E d’altra parte, per motivi politici dell’epoca le tirate contro gli aristocratici, ma insieme contro la demagogia e la violenza illegale (v. atto II, sc. IV, pp. 361-362; atto I, sc. III, pp. 345-346 ecc.).

21 Il Monti si preoccupò molto della preparazione dello “spettacolo” chiedendo all’impresario gran numero di comparse e di coristi («Piú saranno, piú lo spettacolo farà colpo», scriveva da Parigi al Bernardoni, il 26 settembre 1800; Epistolario cit., II, p. 213). Questo gusto dello spettacolare mediante la partecipazione di masse di coristi e comparse era stato già molto diffuso nella tragedia da Giovanni Pindemonte.

22 Le stesse contraddizioni di Gracco finivano poi per essere motivo di suggestione per un tempo che tendeva insieme all’eroico, al virtuoso, al sentimentale e al tenero.

23 Il Monti rientrò in Italia nel marzo 1801. Era stato nominato nel luglio 1800 professore di «eloquenza e poesia» all’Università di Pavia, ma non iniziò le lezioni che nel marzo 1802. Anche in queste lezioni (dal 1802 al 1804) – che possono interessare soprattutto non solo per motivi critici veri e propri quanto come documento della raffinata esperienza retorico-stilistica del Monti – sono frequenti le tirate “italiane” e antifrancesi, contrappesate da elogi a Napoleone. Come si può vedere nella prolusione del 1803, in cui il Monti si scaglia violentemente contro gli stranieri che «cominciarono ad essere uomini, quando divennero nostri schiavi», ma, puntando sull’origine italiana di Napoleone, insieme esalta questo e rinforza il mito di orgoglio nazionale: «Noi compatriotti di Scipione, Cesare e Bonaparte».

24 Come è detto nella premessa «al lettore» (Canti e poemi cit., II, p. 5) che conclude con questa perorazione significativa per l’epoca ortisiana e per il tono della Mascheroniana: «Guai a colui, che a’ dí nostri ha occhi per vedere e non ha cuore per fremere e lagrimare! Lettore, se altamente ami la patria e sei verace italiano, leggi: ma getta il libro, se per tua e nostra disavventura tu non sei che un pazzo demagogo o uno scaltro mercante di libertà».

25 « – Ecco il cor, dicea l’una, in che sí santo / sí fervido del giusto arse il desiro; – / e la man pose al core, e ruppe in pianto. / – Ecco la dotta fronte onde s’apriro / sí profondi pensieri; – un’altra disse; / e la fronte toccò con un sospiro. / – Ecco la destra, ohimé!, che li descrisse, – venia sclamando un’altra; e baci ardenti / su la man fredda singhiozzando affisse» (canto I, vv. 46-54).

26 Canto IV, vv. 202-234: «I placidi cercai poggi felici / che con dolce pendio cingon le liete / dell’Eupili lagune irrigatrici; / e nel vederli mi sclamai: “Salvete, / piagge dilette al Ciel, che al mio Parini / foste cortesi di vostr’ombre quete, / quando ei fabbro di numeri divini, / l’acre bile fé dolce e la vestia / di tebani concenti e venosini”. / Parea de’ carmi tuoi la melodia / per quell’aure ancor viva, e l’aure e l’onde / e le selve eran tutte un’armonia. / Parean d’intorno i fior, l’erbe, le fronde / animarsi e iterarmi in suon pietoso: / il cantor nostro ov’è? chi lo nasconde? / Ed ecco in mezzo di ricinto ombroso / sculto un sasso funèbre che dicea: / Ai sacri Mani di Parin riposo. / E donna di beltà che dolce ardea / (tese l’orecchio, e fiammeggiando il vate / alzò l’arco del ciglio e sorridea) / colle dita venia bianco-rosate / spargendolo di fiori e di mortella, / di rispetto atteggiato e di pietate. / Bella la guancia in suo pudor; piú bella / su la fronte splendea l’alma serena, / come in limpido rio raggio di stella. / Poscia che dati i mirti ebbe a man piena, / di lauro, che parea lieto fiorisse / tra le sue man, fé al sasso una catena: / e un sospir trasse affettuoso, e disse: / Pace eterna all’Amico; e te chiamando / i lumi al cielo sí pietosi affisse».

27 In quest’ode c’è anche una certa eco di forme delle odi pariniane e foscoliane.

28 Il Monti riprese l’ottava nel 1824 in un esperimento-esercizio di nuova versione omerica (fatto forse piú come riprova della bontà dell’endecasillabo che per una precisa volontà di riprendere e attuare il tentativo piú giovanile), presto interrotto con la conclusione da parte dell’autore dell’assoluta inconciliabilità fra poesia omerica e ottava e in genere con la poesia rimata, perché la rima «assoggetta troppo la sentenza». Si guardi, ad esempio, l’effetto piú dispersivo che prende il celebre passo della discesa di Apollo irato, costretta e aggiustata nel giro di un’ottava: «Sí pregava. L’udí Febo e fremendo / d’ira dal ciel spiccossi e scese al basso / col sonante alle spalle arco tremendo / e il chiuso d’ogni parte aureo turcasso. / Mettean, sul tergo all’adirato, orrendo / clangor le frecce al muovere del passo. / Già calandosi a notte atra simíle / piantossi a fronte dell’acheo navile – » (Versioni poetiche a cura di G. Carducci, Firenze 1869, p. 302).

29 Lo stimolo immediato fu proprio la gara con il Foscolo, ma da tempo il Monti tornava col pensiero all’antica aspirazione di tradurre Omero ed ora era maturo per questa grande prova, e propizio era il tempo pienamente neoclassico che considerava come impegno massimo della poesia italiana avere finalmente una propria versione del maggiore poeta della Grecia, modello ritenuto insuperabile di ogni perfezione.

30 Tale era in generale la tendenza dell’epoca neoclassica e diversa la tendenza piú moderna che cerca il piú possibile (donde il prevalente uso di prosa poetica nella traduzione di testi in versi) di riprodurre l’intera suggestione del testo tradotto conservandone il piú possibile il ritmo, la disposizione, la misura delle immagini.

31 Si capisce cosí come al Monti poco importasse leggere il testo che voleva tradurre, nella sua lingua originale, come egli si basasse nella versione dell’Iliade su traduzioni latine e italiane precedenti (risentendone a volte particolari deviazioni dal testo omerico), anche se, specie nella rielaborazione del suo lavoro per l’edizione del 1812 (la prima è del 1810-1811, la terza è del 1820, la quarta e definitiva del 1825), egli cercò l’ausilio di grecisti come il Lamberti, il Mustoxidi, E.Q. Visconti per meglio intendere sempre la «sentenza» del testo greco. Ma varie sviste anche per la «sentenza» rimasero sempre nella versione montiana.

32 In realtà quegli innesti servivano al Foscolo per una mediazione del tono omerico («contravveleno», come egli diceva, al suo pericolo di eccesso drammatico) nel proprio verso. E in tal senso le versioni omeriche sono essenziale preparazione alla poesia delle Grazie.

33 Il testo montiano è sempre assai piú lungo di quello omerico. Solo in un caso il Monti tradusse con lo stesso numero di versi.

34 C’è anche il gusto montiano di una clausola piena a cui l’aggettivo è essenziale, ma questa volta la clausola contiene il vero Leitmotiv del passo e, di fronte a tante forme eccessive e vistose con cui il Monti esprime lo stupore, la meraviglia in altre poesie, questa è tanto piú intima e intensa e richiama semmai quelle espressioni di piú genuino stupore poetico che notammo soprattutto nell’ode al Montgolfier.

35 La «schiena rubiconda» è proprio una precisa espressione ariostesca (nell’episodio di Marganorre).

36 Ma tutto l’episodio meriterebbe un esame minuto del costante rilievo patetico-drammatico di tutti i particolari, con caratteristiche aggiunte di colore – a volte anche eccessive. V. il v. 595 che manca in Omero e che presenta ad Andromaca l’immagine paurosa e ripugnante del greco che la trarrà in servitú «del sangue ancor de’ tuoi lordo l’usbergo».

37 Ad esempio nel canto XVI il Monti cosí descrive la morte di Sarpedonte: «In questo dire / le narici affilò, travolse i lumi / e la morte il coprí». Il testo greco dice letteralmente: «la fine della morte avvolse lui, che aveva cosí parlato, gli occhi e le narici» (Monti, vv. 712-713; Omero, vv. 502-503).

38 Alla contessa Grimaldi, 24 gennaio 1811 (Epistolario cit., p. 404).